Ciao Fabio! Quando hai iniziato a praticare la Muay Thai?
Ho iniziato intorno ai diciassette anni, qui a Lecce, con il mio primo maestro Tony Carrozzini. Dopo aver disputato i primi due / tre match iniziai la formazione anche della Muay Thai tradizionale con Marco De Cesaris a Roma. Mi ha insegnato la metodologia e la didattica, mi ha ampliato e mi ha chiamato in Nazionale a fare il primo campionato europeo a Praga nel 2004, da cui portai a casa un argento e il premio come miglior Ram Muai di tutto il torneo, un premio ad honorem che non era previsto. Poi, il primo campionato del mondo a Bangkok (2005), che mi ha fatto conquistare un bronzo.
Hai praticato altri sport in precedenza?
Sì, ero un ragazzo versatile! Ho provato molti sport, tantissime arti marziali, ma quando ho incontrato la Muai Thai sono impazzito: vidi una cassetta di incontri One Song Chai, c’erano dei ragazzetti unti e rasati che combattevano a suon di musica, più aumentava la musica e più si menavano. Insomma, era la mia dimensione.
Qual è la caratteristica più importante per diventare un fighter di alto livello?
Credo sia la determinazione. Capire i propri punti di forza e affinarli, lavorare sulle armi secondarie, ovvero quelle meno consone per un fighter; se uno è bravo di braccia, migliorare le gambe. Se si è bravi in lotta, migliorare la parte striking e così via. Ma soprattutto la determinazione, la costanza e l’essere pronti a sacrifici incredibili.
Il tuo match migliore in carriera?
Su due piedi non saprei, ho fatto diverse guerre. Posso dire che le sensazioni più belle si hanno quando i match sono molto, molto duri. Ricordo il primo titolo: quello con Arnando Silva fu una guerra. Lo misi KO al secondo round, lui mi mise KO al terzo e per finire lo misi KO a dieci secondi dalla fine del quinto round; ero un ragazzo, fu un’esperienza incredibile. Poi la vittoria al torneo mondiale S1 disputato a Tivoli. C’erano quattro atleti, uno più forte dell’altro, affrontai in semifinale Saro Presti e in finale Moses Saengtiennoi, che in quel momento era il numero uno del Lumpinee e del Rajadamnern, nella mia categoria di peso. Facemmo la finale mondiale dove all’angolo c’era il mio maestro, e vinsi. Vincere un torneo è una sensazione bellissima.
Tra le esperienze più importanti, quella della maglia azzurra per il mondiale in Thailandia: quattro match per arrivare all’oro. Fu un anno pazzesco, quello, perché venivo da una vittoria da Box-Mania fatta il mese prima contro Orgest Farroku (KO al primo round), poi questi quattro match vinti, e di nuovo Oktagon contro il campione della Thailandia, Prakaysaeng Gaiyanghadao e poi di nuovo il mondiale in Sicilia per la WMF. Più che un match, ricordo le annate, e quella fu strepitosa.
Ti ispiravi a qualche fighter in particolare?
Sicuramente avevo un’ammirazione profonda per tanti fighters, tra i primi Farid Villaume che mi ha iniziato a questo sport. Samart Payakaroon, Tantawannoi, me ne piacevano tanti! Non dimentichiamoci che qui in Italia abbiamo Sak Kaoponlek, uno dei più grandi guastatori storici della Thailandia.
Un aneddoto bello sul mio maestro recentemente morto, Saengtiennoi, è che lui ha combattuto due volte con Kaoponlek, una volta ha vinto e una ha perso. Quando si sono incontrati a Roma si abbracciarono con estrema amicizia, affetto e stima.
Che ne pensi del ”taglio del peso”?
È veramente pericoloso. Se posso dare un consiglio, non trascurate il discorso della disidratazione, perché può essere grave e potreste non accorgervene a vent’anni, ma pentirvene dopo. Quando perdiamo il sudore, non perdiamo solo sali minerali ma anche ferro e altre cose fondamentali. Non si scherza con i liquidi.
Reputi necessario per un atleta allenarsi all’estero?
Credo che sia importante come esperienza, ma non necessaria. Tanti atleti di alto profilo hanno avuto la possibilità di andare all’estero e altri di farlo nelle proprie case. Io, da buon terrone, mi sono sempre allenato nelle mie zone, e ho affrontato avversari che avevano dietro equipe di medici e preparatori atletici, o si allenavano nelle migliori palestre di Parigi anziché di Bangkok. Certo, un lavoro tecnico in clinch con sparring partner forti fa la differenza, però credo sia altrettanto importante la crescita sul territorio: credo che l’Italia possa recuperare qualche sfumatura tecnica, ma le figure professionali di alto livello ce le abbiamo: ormai ci siamo.
Il duro lavoro batte il talento. E’ vero?
Il talento è una virtù innata, ma la virtù da sola non serve a nulla se non viene coltivata. Il duro allenamento e la determinazione possono invece portare al vertice, ma credo che la differenza tra un artista marziale e un semplice pugile sia la componente di estro, che è soggettiva. Serve quindi un connubio tra le due, l’una non può vivere senza l’altra. Ho lottato contro tanti pugili non particolarmente talentuosi o tecnici, ma duri come macigni: ogni match ha la sua storia. E come dice Aristotele: “Perfetto è ciò che ha raggiunto il suo fine”. E alla fine, è il ring a parlare.
Parlaci del ”Team Oltrecorpo”
Il team Oltrecorpo è un centro di formazione, un luogo di incontro: ci occupiamo di boxe thailandese in tutti i suoi aspetti, anche culturali e storici. Mia moglie si occupa di danza classica contemporanea, è un ambiente di musica, di corpo, di mille linguaggi. Studiamo l’arte marziale antica applicata al combattimento sportivo, e questo per noi è un valore aggiunto. Ne studiamo la storia, i nomi, le origini, e non li teniamo separati dalla rappresentazione sportiva dell’arte marziale. La Muay Thai ha un regolamento così ampio che consente ai marzialisti di esprimersi sul serio.
Che rapporto hai con i tuoi atleti?
I miei atleti sono tutti una squadra, non amo le mosche bianche. Dal più esperto all’ultimo fighter in scuderia c’è familiarità, sembriamo un branco di lupi in cui ognuno ha ruoli diversi, e ognuno si impegna per l’altro. Molti agonisti sono anche istruttori, perché credo che l’esperienza sia un valore aggiunto. Citando Confucio: “Noi possiamo discutere dell’acqua, ma non sapremo mai il suo sapore, salato o salmastro, se non l’abbiamo mai ingerita”. Quindi è una distanza tra il conoscimento tecnico e l’applicazione sul ring. Credo che aver sceso qualcuno, aver fatto un taglio da lasciare contusi, avere l’esperienza “gomito” per gli istruttori interni di Oltrecorpo sia una componente in più di veridicità.
Quanto reputi importante la figura del maestro?
Il Maestro è fondamentale, ma talvolta deve essere l’antagonista dell’alievo. Deve esserci un rapporto naturale, titanico, quasi paterno. Questo non significa mancare di rispetto o dimenticare il principio dell’arte marziale, che ad esempio nella Muay Thai è rinchiuso nei tre saluti Sam Krab, il primo è l’omaggio al Maestro. Il secondo è rivolto al branco, al Kai Muai. Il terzo è per gli Antenati, quindi la metafisica, l’Aldilà e tutto ciò che è al di là del fisico. Lo scontro / incontro con il Maestro è fondamentale, come rappresentazione anche del combattimento. E poi ci si può amare, ma non può avvenire nelle prime fasi della didattica. Ad esempio con Puce, neo-campione WMC, parliamo più facendo clinch, che con le parole che ci diciamo. Certo, c’è confidenza, ma la gran parte dei nostri discorsi è fatta di lotta.
Progetti per il futuro?
Con la nuova FC Company Srl, insieme ad Andrea Carletti, amico storico di sempre e Luciano DiBiase abbiamo fondato una società, e il nostro obiettivo è quello di promuovere e divulgare Fight Clubbing, i nostri atleti e gli eventi. Abbiamo grandi progetti per il futuro che esporremo in un meeting di metà settembre.
Grazie mille Fabio, a presto!
Grazie a voi. A prestissimo!